4 Marzo 2018. In tre seggi diversi della penisola Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer guardano la scheda con aria perplessa.
Nato dalla prima di una lunghissima serie di scissioni, il Partito Comunista Italiano (anche se alla fondazione si chiamava Partito Comunista d’Italia) nasce nel 1921 da una costola del PSI. Da allora è stato al centro della sinistra e di tutta la politica italiana del Novecento. Architrave dell’opposizione al fascismo e della Resistenza, è stato confinato nel Dopoguerra a forza di sola opposizione dagli accordi di Yalta. A dispetto di ciò è stato il più grande partito comunista dell’Europa Occidentale, assicurando un peso importante nella società alla classe operaia e contadina di cui era il rappresentante politico. Nonostante un progressivo allontanamento non recise mai il suo cordone ombelicale con l’URSS, cosa che pagò con la dissoluzione allorquando terminò l’esperienza sovietica. Era il 1991 e da allora proviamo, senza successo, a riannodare i fili del discorso.
Partito Democratico (18,72%): Quando il PCI si sciolse dalle sue ceneri nacque il PDS che poi divenne DS che poi si fuse con un postero della DC chiamato Margherita per diventare appunto PD. In poche parole, un partito che ha unito PCI e DC, due forze che arrivavano insieme al 70%, riuscendo in pochi anni ad arrivare al 18%. Nei suoi dieci anni di vita ha collezionato due sconfitte colossali (2008 e 2018) e una vittoria striminzita mentre tutti i sondaggi lo davano in netto vantaggio (2013). Spostato su posizioni sempre più centriste e dilaniato da un numero di correnti che sfiora il surreale è oggi alla ricerca di sé stesso. Ma l’impressione è che non sappia dove cercare.
La grande e bella anomalia del PCI fu essere un partito di sinistra con una base elettorale di forte identità popolare. Tanti intellettuali votavano e facevano parte dei quadri di partito, ma i voti raccolti tra la classe operaia erano il vero zoccolo duro elettorale. Ingannati per decenni da questa anomalia, i dirigenti dei partiti di sinistra hanno in seguito dato per scontato il voto popolare. Come conseguenza, lo hanno quasi del tutto perso a favore di partiti e movimenti populisti. Partiti come il PD si sono appiattiti sulle posizioni dei gruppi industriali e della grande finanza. La sinistra radical(chic) dal canto suo si è arroccata su posizioni sempre più massimaliste giocando a fare il verso ai Salvini di turno. La strategia di rispondere alla xenofobia con slogan uguali e contrari del tipo “accogliamo tutti gli immigrati” si è rivelata un vero fallimento. Sono state deliberatamente ignorate le pressioni che il complesso fenomeno migratorio odierno pone sui quartieri e i settori sociali più svantaggiati. Il termine “sicurezza” viene da questi gruppi automaticamente associato al fascismo, quando dovrebbe essere bandiera di chi è dalla parte delle classi sociali più basse. La pressione criminale sia essa di matrice italiana o straniera è molto più pesante nelle periferie che nei quartieri alti dove si trovano oggi la grande maggioranza dei votanti della sinistra massimalista.
Liberi e Uguali (3,38%) In precedenza abbiamo omesso che non tutto il PCI si trasformò in PDS ma una parte rimase fedele alla falce e martello fondando Rifondazione Comunista insieme a Democrazia Proletaria. Ma una corrente raccolta intorno alla figura di Nicky Vendola cambiò idea una quindicina di anni dopo e abbandonato lo storico simbolo dei lavoratori fondò Sinistra e Libertà, poi diventata Sinistra ecologia e libertà per poi passare a un più parco Sinistra Italiana. Caratterizzata da un atteggiamento schizofrenico verso il PD con cui si allea e rompe ogni sei mesi, a queste elezioni ha dato il via all’esperienza di LeU insieme a due gruppi fuoriusciti dal PD, Possibile di Civati e Articolo 1 di Bersani e D’alema. Messo a capo il solito magistrato (ormai incredibilmente vera e propria conditio sine qua non della sinistra radicale) hanno creato questo classico cartello elettorale con l’obiettivo di entrare in parlamento. Una tra le più basse soglie della seconda repubblica li ha aiutati ad entrare per un soffio mentre i tre soggetti già litigavano furiosamente su tutto, arrivando a non appoggiare il PD nelle regionali in Lombardia mentre contemporaneamente lo facevano nel Lazio. Civati però, si dichiarava subito contrario a quest’ultima scelta. Come se non bastasse, poco dopo le elezioni, gli altri due soggetti hanno cominciato a scannarsi sulle nomine e sono incredibilmente usciti dalla maggioranza di Zingaretti il giorno del suo insediamento. Pochi giorni dopo Laura Boldrini, ex Presidente della Camera ed esponente di spicco di LeU, ha dichiarato serafica che forse sarebbe meglio andare oltre l’esperienza pur positiva (?) di Liberi ed Uguali.
Se la serie di insuccessi elettorali e il progressivo distacco politico e concettuale dalle classi popolari accomunano la sinistra italiana a quella europea, il labirinto infinito di unioni e scissioni ne sono una caratteristica quasi peculiare. I vari partiti e movimenti di sinistra ormai sembrano giocare una partita tutta interna senza neanche più curarsi di ciò che succede negli altri schieramenti politici e cosa ancor più grave nella società. Impegnati a litigare e a scindersi, i dirigenti e la base hanno ignorato i grandi sconvolgimenti di questi decenni. Ad esempio, abbiamo assistito a una campagna elettorale in cui le varie componenti della sinistra hanno continuato ad utilizzare metodi novecenteschi quali i comizi in piazza lasciando il campo agli altri su tutti i social network. Ignorare il potenziale di questi strumenti ha avuto risultati catastrofici. Non è assolutamente un caso che i due partiti più attivi in questo campo, anche con metodi discutibili vedi fake news, siano risultati i veri vincitori delle elezioni. Si suole dire che la sinistra non ha più le risposte necessarie alla società di oggi. Il sospetto sempre più fondato è che non capisca neanche le domande.
Potere al popolo (1,13%) Lista nata a pochi mesi dalle elezioni dall’idea di alcuni attivisti del centro sociale EX OPG di Napoli. Ha subito aderito Rifondazione, partito passato da percentuali quasi a due cifre allo zero virgola. Idem il PCI, il cui nome evoca più nostalgia per il passato che speranze per il futuro. La sua storia però vale la pena di essere raccontata. A fine anni ’90 una parte di Rifondazione si scisse per formare il PDCI (alias comunisti italiani) per seguire una linea governista. Dopo anni di duello comunista con Rifondazione i due soggetti si rimettono casualmente insieme prima delle elezioni del 2008 formando la Sinistra Arcobaleno insieme ad altri soggetti. Falliscono l’entrata in parlamento e si separano nuovamente per poi rimettersi insieme formando la Federazione della Sinistra in prossimità di un nuovo appuntamento elettorale. Dopo questa terza separazione il PDCI decide di sciogliersi per diventare PCDI (giuro è vero) e in seguito tornare all’antico e glorioso nome di PCI. Tornando alla lodevole esperienza di Potere al Popolo, la grottesca festa in collegamento con Enrico Mentana per celebrare l’1,13% la sera del 4 marzo vale più di mille saggi e conferenze sulla sinistra di oggi. Partito Comunista (0,32%): Partito personale di Marco Rizzo, ex esponente del PDCI da cui si scinde per non meglio precisate ragioni, raggiunge il lodevole scopo di fare nel 2018 una campagna con temi e slogan che andavano bene nel 1918. Per una sinistra rivoluzionaria (0,08%): Nella Rifondazione di Bertinotti c’erano cinque correnti, tre delle quali di matrice Trotzkysta. Prima ne è fuoriuscita una per creare il Partito Comunista dei Lavoratori, poi una seconda per creare Sinistra Critica che a sua volta si è poi scissa in due, poi una terza che forma Sinistra Classe Rivoluzione. Quest’ultima forma assieme al PCL questa lista che raccoglie meno voti di compagini quali il Partito del Valore Umano e 10 Volte Meglio.
Palmiro Togliatti, grande leader a vocazione governista, guarda con insistenza il simbolo del Partito Democratico. Enrico Berlinguer, nostalgico di una visione meno centrista ma contrario ai massimalismi, riflette su LeU. Antonio Gramsci, poco incline a compromessi, sta per barrare la casella di Potere al Popolo. Poi qualcosa succede. I tre ex leader ripiegano la scheda e la consegnano bianca al funzionario. Troppo, anche per loro. Se ne riparla tra cinque anni, è il loro pensiero comune. Ma come fare per riconquistare i loro voti e quelli di milioni di italiani? Ognuno ha le sue ricette. Modesta opinione di chi scrive è che non si possa prescindere da un riavvicinamento ai bisogni delle classi popolari, da una comprensione migliore della società contemporanea e dei suoi meccanismi, da uno strappo con l’area centrista, dall’abbandono del massimalismo da una parte e dall’alleanza con le élites economiche dall’altra. Quanto di tutto ciò sia realizzabile è una domanda che non può trovare risposte serie. Forse ci si può rifugiare nel pensiero di John Holloway, il sociologo irlandese che spiegava che la sinistra per cambiare il mondo deve evitare di prendere il potere. In Italia, in attesa della prima parte, la seconda ci sta riuscendo benissimo.
di Yuri Perrotti
Aspetto con ansia il momento in cui a questo lungo capitolo (per carità, avvincente) si metta definitivamente la parola FINE. La sinistra è andata in panne con la riorganizzazione del lavoro partita a metà anni 80 o giù di lì. Si è semplicemente estinta la necessità di quel tipo di sinistra. Questo però non significa che si sia estinto il bisogno di avere una sinistra la quale, lungi dall’essere una semplice convenzione, rappresenta al pari della destra una modalità con cui gli uomini vedono il mondo e interpretano le cose.
Quel corpo morto attaccato alle macchine chiamato PD non può rispondere perché non capisce le domande, come si dice giustamente nell’articolo.
Eppure una sinistra di intellettuali che ha chiare le domande (e forse anche qualche risposta) esiste già, anche se a pronunciare certi nomi la gente si alza dalla sala e va via; per citare il più rappresentativo basti pensare a Toni Negri (il Negri 2.0 che parte da “Impero”, uscito nel 2000). A loro va il merito di aver introdotto concetti quali il biocapitalismo e le analisi del capitalismo delle piattaforme.
Dove sono questi intellettuali? Bella domanda. A cercarli non è detto che li si riesca a trovare, e devo dire che fanno di tutto per non farsi trovare. Ma una sinistra che possa definirsi tale e che voglia fare i conti col fatto che la “classe operaia” non esiste più e il lavoro è totalmente mutato, non può prescindere, a mio modesto parere, dalle loro analisi.
A conclusione aggiungo che, per quanto possa sembrare infinitesimale, quell’1,13% di Potere al popolo non mi sembra un dato da scartare, perché dietro a quel numeretto c’è l’enorme energia delle reti sociali le quali, credo per la prima volta, sono riuscite a superare la loro naturale disorganizzazione per un obiettivo comune. E non è un caso che siano partiti proprio da Napoli.