Da qualche mese la parola fascismo è rientrata prepotentemente nel lessico mediatico, balzando sulle prime pagine dei giornali italiani, complici alcuni eventi di cronaca nera (1,2) e il crescente consenso a partiti di destra un po’ in tutta Europa, da Alba Dorata in Grecia ai Democratici Svedesi. Xenofobia, nazionalismo, muri, guerre, intolleranze sembrano ormai l’inevitabile destino con cui dovremo confrontarci nei prossimi anni. I media tutti fanno quadrato nel lanciare alti strepiti contro la barbarie fascista, sempre pronta a riconquistare terreno.
Strana sorte quella del termine fascismo. Infatti, mentre comunismo è oggi quasi del tutto estinto (analogamente ad altri ismi dopo Tangentopoli), subendo prima l’uccisione per mano violenta e poi, nel corso dei dibattiti mediatici del cosiddetto ventennio berlusconiano, il processo finale di trasformazione in rifiuto (con Berlusconi che nel far questo ha agito da vero e proprio intestino crasso della dialettica politica), a fascismo è toccata invece una sorte diversa. È vero che anche i reduci della fiamma tricolore sono passati dalla furia digerente di Berlusconi (ricordiamo l’infelice matrimonio con Fini), ma tuttavia è rimasto qualcosa di indigesto. E questo qualcosa è la forza mediatica che il termine ancora produce, la suggestione ambivalente fatta di timore (per chi non ha vissuto la dittatura fascista si tratta di un timore condizionato) e di reverenza (generalmente tramandata, il famoso “durante il Fascismo si dormiva con le porte aperte”). Quindi, se nel panorama politico il fascismo è ridotto a sparute frange extraparlamentari, nel dibattito mediatico e in parte nell’opinione pubblica ha continuato ad avere un peso considerevole.

La stampa si fionda sul nuovo caso come fosse una manna dal cielo, sfruttando l’occasione per demonizzare l’attentatore nel più classico dei sacrifici, quello del capro espiatorio. Ma si tace spesso, perché non conviene ricordarlo, quale possa essere stata la paura o la frustrazione che ha generato la radicalizzazione e spinto a compiere quel gesto. Si dimentica di ricordare che spesso dietro la parola fascismo (ma il discorso può andare bene anche per analoghe forme di estremizzazione, come quella di radice islamica) si nasconde la paura della dissoluzione dell’identità, una paura umana, profonda e legittima, capace di innescare reazioni brutali di difesa contro spinte destrutturanti. Si bandisce il fascismo perché frutto avvelenato della pianta chiamata paura, e si bandisce quest’ultima perché illegittima. È un epoca la nostra in cui è “immorale” avere paura, contrario ai valori massimi della civiltà perché minacciosa delle libertà e del modello senza barriere che più è congeniale al mercato. Chi ha paura viene tacciato di essere reazionario, gli si fa presente che così facendo mette in pericolo quei principi di uguaglianza e libertà che fondano la nostra civiltà. Ma si dimentica di dire che viviamo in un mondo sempre più pericoloso ed incerto, governato dal debito economico e dalla frustrazione psicologica.
Contrariamente a questo, io sento invece di reclamare il diritto ad avere paura, il diritto a provare rabbia e sgomento, e il diritto ad essere contro. Un diritto che non merita di essere sepolto né di essere bollato col marchio di fascismo: sarebbe un semplice gioco delle parti fatto con vecchie marionette scalcinate, prive ormai dei loro colori e simboli identificativi, e utile solo a svilire e de-criticizzare la componente antisistema di cui è portatore.
Ma ancora più che quel diritto, reclamo il dovere di ascoltare quella paura e quel disagio. Da quelle fette di società, come diceva Marcuse, proviene infatti una carica antisistema di cui loro stessi non sono spesso consapevoli. Bisogna ascoltare e portare alla deflagrazione questa energia per rompere il cerchio di dominio che i media compiono con le loro strategie massificanti.
La retorica dell’antifascismo, dentro la quale si sono ingrassati non solo democristiani, comunisti e socialisti, ma anche quegli ex-gerarchi fascisti scampati impunemente al giudizio (condonare è tra i marchi tipici dell’Italia, come la pizza, il parmigiano o la Ferrari), questa retorica ha imperniato sui principi teorici di libertà un modello in poco difforme da quel fascismo che intendevano combattere.
Non è forse fascismo aver ridotto al silenzio e all’ebetismo un’intera popolazione? Non è fascismo aver permesso questo genocidio della biodiversità lingustica, culturale e sociale ai danni dell’Italia?
Pochi intellettuali hanno saputo criticamente descrivere questo processo come Pier Paolo Pasolini. Lascio spazio alle sue parole che, avvolte da un manto di spessa solitudine, hanno vagato inascoltate nel deserto di un’Italia in piena decadenza:
“Non considero niente di più feroce della banalissima televisione. […] Tutto viene presentato come dentro un involucro protettore, col distacco del tono didascalico di cui si discute di qualcosa già accaduta, da poco magari, ma accaduta, che l’occhio del saggio o chi per lui, contempla nella sua rassicurante oggettività, nel meccanismo che quasi serenamente e quasi senza difficoltà reali l’ha prodotta; in realtà nulla di sostanziale divide i comunicati della televisione da quelli della analoga comunicazione radiofonica fascista, l’importante è una sola cosa, che non trapeli nulla mai di men che rassicurante. L’ideale piccolo borghese di vita tranquilla e perbene – le famiglie perbene non devono avere disgrazie – si proietta come una specie di furia implacabile in tutti i programmi televisivi e in ogni piega di essi. Tutto ciò esclude gli spettatori da ogni partecipazione politica, come al tempo fascista! C’è chi pensa per loro. E si tratta di uomini senza macchia, senza paura e senza difficoltà, neanche casuali e corporee. Da tutto ciò nasce un clima di terrore. Lo vedo chiaramente il terrore negli occhi degli intervistatori e degli intervistati ufficiali. Non va pronunciata una parola di scandalo, praticamente non può essere pronunciata una parola, in qualche modo, vera”.
Hai ragione nel dire che dietro la parola fascismo si nasconde la paura della dissoluzione dell’identità. Il problema, secondo me, sta nella legittimità di questa paura. Perché pensi che sia legittima? E fino a che punto tale legittimità può essere considerata uno scudo morale? La legittimità dovrebbe nascere dal considerare l’identità un pilastro da non scalfire. Ma è necessario considerare l’identità individuale (e quella nazionale) un pilastro portante della vita?
Nell’ultimo articolo che ho scritto (la frammentazione madre) metto in dubbio in effetti la profondità e la legittimità dell’identità (non della paura della dissoluzione). Sul fatto che esista un aspetto, o meglio, una propulsione identitaria in ogni individuo (più o meno plasmata dalla società in cui si vive) sono d’accordo. Sul grande peso etico che se ne da attualmente sono meno d’accordo. Secondo Max Fisher del New York Times l’dentità nazionale è un’invenzione (https://www.internazionale.it/video/2018/03/07/identita-nazionale-invenzione-nazionalismo), che lo sia anche quella individuale (almeno quella che da vita al fascismo)?
Credo che il discorso possa essere posto su più livelli, uno dei quali è quello a cui accenni tu, ovvero la questione etica e sociale dell’identità. Altro piano può essere quello psicologico. In entrambi i casi trovo inapplicabile la dialettica bene/male. Piuttosto occorre procedere a ritroso, ovvero: nella società moderna che peso ha l’identità? E’ cambiato il ruolo con cui la si percepisce e difende? Non chiederci cioè se deve o non deve esserci – anche perché avremmo difficoltà a reperire un piano di valori cui appellarci – ma piuttosto se esiste un concetto di identità condiviso. Credo che il tema dell’identità, anche per come viene posto da certi “fascismi”, sia abbastanza ottocentesco, così come in fondo il tema dell’identità nazionale, ma che si tratti di un’invenzione mi sembra esagerato. Il riconoscersi in una comunità che condivide costumi e tradizioni è un aspetto del senso di appartenenza, uno degli stimoli più imponenti del genere umano, dai riti tribali ai selfie su facebook. E’ chiaro che spesso è stato manipolato a fini politici, questo spiega perché uno Stato come l’Italia possa includere identità tanto diverse e conflittuali.
Passando all’aspetto psicologico, anche qui si può avere la sensazione che l’identità sia un qualcosa di inventato o di convenzionale ma, ammesso che si tratti di un’invenzione, si tratterebbe di un’invenzione condivisa, allargata al genere umano, un po’ come può essere lo spazio o il tempo, dei quali si può mettere in dubbio l’esistenza, come mi insegni, ma non la comune percezione umana. Anche l’identità è una percezione mentale, fondata sull’autocoscienza, sulla memoria che in ogni istante ci ricorda che siamo noi stessi, e sulla stabilità dell’ambiente circostante (cultura e tradizioni), ma questa percezione più che essere una artificiosità imposta, rappresenta piuttosto un modo per leggere la costituzione della realtà, la quale tende verso l’unità degli enti. E’ un dato empirico molto forte quello che ci si presenta costantemente davanti: parti del corpo unite in un solo corpo, corpi che formano entità più grandi come la famiglia, lo Stato, alberi uniti in foreste, e via dicendo. E’ un’interpretazione, certo, ma quanto c’è di costitutivo nei sistemi stessi? Quanto c’è, nella vita, di “anti-entropico”?
Probabilmente oggi il tema dell’identità si sta ponendo in chiave critica, e se vogliamo drammatica, nella misura in cui viviamo in contesti de-privati da piani culturali forti: la fluidità descritta da Bauman si manifesta con la moltiplicazione delle identità possibili, che ciascuno di noi può comodamente scegliere come farebbe con un maglione o con il tipo di pizza. Questo contesto di mobilità identitaria, affascinante e per molti versi entusiasmante, si scontra però con quel nostro senso interiore di unità e occorre un grande sforzo per approdare ad un modello controintuitivo, ovvero che dentro di noi possono albergare più identità o identità fluide o nessuna identità. Mi vengono in mente i volti sfatti di Francis Bacon…