Ci troviamo nel bel mezzo di un cambiamento epocale. Nel senso più stretto della locuzione. Un cambiamento sempre più intenso e imprevisto, che con rapidità inaspettata sta segnando il passaggio dalla precedente epoca geologica, l’Olocene, ad una nuova che, sempre più diffusamente, nella comunità scientifica (e non solo) viene indicata con Antropocene.
Tale termine è stato divulgato dal chimico premio Nobel Paul Crutzen, per definire l’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre risulta fortemente condizionato localmente e globalmente dagli effetti dell’azione umana dal punto di vista fisico, chimico e biologico.
Per milioni di anni il nostro pianeta è stato soggetto a cambiamenti epocali, non è una novità, quello che invece salta agli occhi con violenza e stupore è la rapidità con cui quest’ultimo cambiamento sia in atto e il fatto che per la prima volta esso non sia dovuto a cause prettamente geologiche ma biologiche e che una specie vivente abitante del pianeta ne sia diventata il principale fattore: l’anthropos, l’uomo per l’appunto!
Ma facciamo un passo indietro: circa 10.000 finiva l’ultima grande glaciazione ed una nuova epoca prendeva inizio, l’Olocene. Un’epoca caratterizzata da un equilibrio climatico pressoché stabile che permise l’avvento e il proliferare di una nuova razza animale: l’Homo Sapiens. E’ qui che nasce la nostra storia, circa 10 millenni fa.
In questo lungo periodo (almeno dal punto di vista di una vita umana) abbiamo iniziato a diffonderci in tutti, o quasi, gli spazi del pianeta, forgiando la natura e le sue risorse secondo i nostri bisogni e necessità. Abbiamo cominciato a costruire i più svariati utensili e strumenti di volta in volta sempre più sofisticati, e a esprimere le nostre emozioni e le nostre paure , abbiamo carpito il segreto del fuoco, costruito dei ripari sempre più grandi comodi e lussuosi, siamo stati cacciatori e raccoglitori prima, agricoltori e allevatori poi. Abbiamo cercato di comprendere il segreto della nostre vite e di quelle che ci stanno intorno, ne abbiamo immaginate di altre per giustificare le nostre paure e le nostre azioni. Abbiamo capito cosa ci permette di stare in piedi e cosa a volte può salvarci dalla morte…abbiamo fatto ciò e molto di più.
E con alterne vicende, tante alterne vicende, il pianeta ha continuato quasi indisturbato ad andare avanti, tenendoci sott’occhio come ospiti a volte un pò indisciplinati e rumorosi che ogni tanto mettevano a soqquadro qualche angoletto di caso, ma non lasciandosi intimidire da eccessive preoccupazioni.
Tutto d’un tratto questo equilibrio iniziò a sfaldarsi, alla fine del diciottesimo secolo la rivoluzione industriale e in particolare il sempre più intensivo sfruttamento dei combustibili fossili incominciarono a diffondersi, dapprima in Europa per poi allargarsi sempre più nei quattro angoli del globo.
Una nuova età di ‘benessere’ e un nuovo modello di sviluppo iniziarono a farsi strada, incentrati sul concetto di crescita produttiva e dei consumi, di progresso tecnologico e di sviluppo scientifico: l’antropocene aveva incominciato a farsi strada. Negli ultimi 200 anni gli effetti di questo nuovo paradigma sono stati devastanti per l’ecosistema terrestre. Eccone alcuni esempi, tra i più eclatanti:
- esplosione demografica
- alterazioni sostanziali degli equilibri naturali
- scomparsa delle foreste tropicali
- perdita della biodiversità
- occupazione di circa il 50% delle terre emerse ed estrema antropizzazione del territorio
- sovrasfruttamento delle acque dolci e delle risorse ittiche
- inquinamento chimico
- acidificazione degli oceani
- esaurimento dell’ozono
- cambiamenti climatici e riscaldamento globale
I danni e le conseguenze di questi alterazioni sono ormai giornalmente sotto gli occhi di tutti e anche i più distratti possono, volendo, comprenderne la loro portata.
C’è chi è distratto per carattere, chi per convenienza, chi perché fuorviato da informazioni mendaci e contrastanti. Ma essere distratti non è più perdonabile qualunque ne sia la causa; qui non si discute solo di poter di nuovo vedere un orso polare che possa vagare nei suoi spazi bianchi sconfinati senza annaspare tra banchi rotti di ghiaccio e nemmeno di potersi specchiare in mari cristallini e incontaminati; né di poter ammirare la grazia di un maestoso felino aggirarsi tra le savane africane o di continuare a guardar cadere la neve d’inverno, petali in primavera, raggi di sole in estate e foglie d’autunno…
Probabilmente non esistono soluzioni immediate o magici rimedi per risolvere improvvisamente tutte le magagne; la strada per il recupero è lenta e forse dolorosa, sicuramente costellata di sacrifici (almeno rispetto alla comoda vita a cui siamo abituati); ma è necessario che ognuno di noi incominci ad avviare una riflessione e prendere coscienza che dal comportamento di ognuno, dal proprio spirito e consumo critico, dipende una piccola parte di speranza.
In gioco c’è la prosecuzione dell’avventura vivente del pianeta.
Evitiamo ogni ulteriore distrazione.
Anthropocene: a new epoch
We are in the midst of a epochal change. In the strictest sense of the term.
A change intense and unpredictable, that with unexpected rapidity is marking the transition from the previous geological epoch, the Holocene, to a new one that, more and more widely, is indicated as Anthropocene by the scientific community (and not only). This term has been disclosed by chemist Nobel laureate Paul Crutzen, in order to define the geological era in which the earth’s environment is strongly influenced in local and global effects by the human action from the physical, chemical and biological point of view. For millions of years our planet has been subject to dramatic changes, is not a news, but what violently and amazement astonishes is the rapidity of this change that for the first time in world history is not due to purely geological causes but biological and a living species inhabitant of the planet has become the main factor: the anthropos, the man indeed!
But let’s step back: 10,000 ended the last great ice age and a new era was about to begin, the Holocene. An era characterized by a quite stable climate balance that allowed the advent and proliferation a new animal race: Homo Sapiens. Here comes our story, about 10 millennia ago. In this long period (at least from the point of view of a human life) we have begun to dilate in all, or almost all, places of the planet, shaping the nature and its resources according to our needs and requirements. We began making a wide range of tools and instruments once in time more and more sophisticated, to express our emotions and our fears, we have discovered the secret of fire, built even large and comfortable shelters, we were hunters and gatherers before, farmers and ranchers then. We tried to understand the secret of our lives and those who are around us, we imagined other lives justifying our fears and our actions. We understood what it enables us to stand up and what can sometimes save us from death … we did that and much more.
And with ups and downs, so many ups and downs, the planet has continued almost undisturbed to move forward, looking us as guests a bit unruly and noisy that sometimes put upside down some small home corner, but not letting itself be intimidated by excessive worries.
Suddenly this balance began to fall apart, in the late eighteenth century the industrial revolution and in particular the more and more intensive exploitation of fossil fuel began to spread out, first in Europe and then expanding more and more in the four corners of the globe. A new age of ‘well-being’ and a new model of development began to emerge, focusing on the concept of production and consumption growth, technological progress and scientific development: the Anthropocene had begun to make inroads. Over the past 200 years the effects of this new paradigm have been devastating for the Earth’s ecosystem. Here are some examples, among the most evident:
- population explosion
- substantial alterations of the natural balance
- disappearance of tropical forests
- loss of biodiversity
- occupation of about 50% of the land and extreme human settlement of the territory
- overexploitation of sweet waters and fisheries resources
- chemical pollution
- ocean acidification
- ozone depletion
- climate change and global warming
The damages and the consequences of these changes are clear to everybody, and even the most distracted, can understand their reach. Some are distracted by character, some for convenience, someone because misled by lying and conflicting information. But being distracted is no longer forgivable, whatever the reason; here we are discussing not only to be able of seeing again a polar bear wandering in its endless white space without fumbling around ice broken benches and even of mirroring ourselves in crystalline and uncontaminated waters; nor of admiring the grace of a majestic feline roaming between the African savannas or continuing to look at falling snow in winter, spring petals, sunrays in summer and autumn leaves …
Probably there are no immediate solutions or magic remedies to suddenly resolve all the flaws; the road to recovery is slow and possibly painful, definitely full of sacrifices (at least compared to the comfortable life we are used to live); but it is necessary that all of us begin to start thinking and realizing that on the behavior of each one, on his spirit and critical consumption, depends a small piece of hope.
At stake is the continuation of the living adventure on the planet.
We need to avoid any further distraction.
Credo che le motivazioni utilitariste reggano poco, purtroppo, perché la percezione del rischio è fin troppo distante dal nostro orizzonte quotidiano. I singoli rinunciano con difficoltà alle proprie comodità per un fine percepito lontano e quasi “astratto”. Le nazioni non possono rinunciare, pena un ritardo rispetto alla concorrenza; l’unica strategia sarebbe operare in maniera concorde, come si cerca di fare del resto da molti anni con risultati quasi nulli. Anche all’ultima conferenza di Parigi dello scorso dicembre, i 196 paesi partecipanti si sono dati impegni ambiziosi, senza tuttavia fissare serie quote di emissioni (dovrebbero essere ratificate nel corso del 2016.. vedremo).
Personalmente vedo il problema come l’emblema del sovvertimento della funzione principale dell’economia, che da strumento è diventata fine delle nostre vite. In effetti, oggi ci ritroviamo a condurre esistenze private da finalità superiori, il cui scopo principale è la produttività economica. Non si tratta di lotta per l’esistenza, quella l’abbiamo in un certo senso superata da un pezzo (almeno in Occidente), ma di garantire che il sistema capitalistico continui a funzionare indipendentemente dalle nostre necessità. Laddove non esistono domande, si induce il bisogno. In questo senso, l’Italia, dal piano Marshall in poi, è stato uno degli “esperimenti” più riusciti degli Stati Uniti.
Non si tratta solo di prendere coscienza e responsabilizzare, per quanto questi siano comportamenti utili a frenare l’inquinamento dilagante; il problema per me è innanzitutto culturale, e riguarda il modo in cui consideriamo le nostre stesse vite, dal lavoro che svolgiamo, ai prodotti che utilizziamo e dei quali costelliamo le nostre abitazioni per puntellare i nostri fragili universi domestici. Dovremmo riconsiderare aspetti oggi tramontati, orizzonti di collaborazione e di convivenza, ritagliare spazi di senso condiviso nelle città, piuttosto che continuare a coltivare il modello di vita moderna.
Credere nella decrescita, in un certo senso, è un atto spirituale, e solo credenze di questa natura possono avere la forza di spingere un uomo a rifiutare il modello “unidimensionale” del capitalismo, per sua natura irrinunciabile. Ma come già denunciava Marcuse negli anni Sessanta, il sistema economico-sociale è costituito in maniera tale che anche le forze “sovversive” e antisistema non possono, prima o poi, non assumere i tratti del sistema che intendevano distruggere; ne sono un esempio la politica, l’arte, la letteratura e il cinema o i processi di sussunzione che sta subendo il mercato del biologico a livello globale.
Io credo che il consumo critico (o per meglio dire il non consumo critico) sia una delle poche efficaci armi a nostra disposizione per incidere sul nostro ambiente ed avere un impatto nella società.
Il fatto che un approccio antisistemico possa poi diventare sistema a sua volta non implica necessariamente una regressione.
Per dirla come Kunh, c’è da rivoluzionare un paradigma e questo è possibile anche partendo dal basso ed estendendo per emulazione i nostri comportamenti.
Ad esempio, la sempre maggiore diffusione dei temi ecologici, del vegetarianesimo, dell’utilizzo della bici come mezzo di trasporto alternativo, di stili di vita meno consumistici, dimostrano come una nuova sensibilità verso certi temi sia possibile anche se non imposta dall’alto.
A mio avviso un cambiamento culturale, seppur in nuce, è già in atto, bisogna solo farsene portavoci e catalizzatori al massimo delle nostre possibilità, cercando di vincere e contrastare tutte le reticenze.
Se mettiamo da parte il nostro orgoglio di alternativi e anticonformisti in fondo le mode possono essere anche utili a diffondere valori positivi.
“Il riciclaggio è inutile Lisa, una volta spentosi il sole questo pianeta sarà spacciato. Ci stai facendo passare i nostri ultimi giorni usando prodotti scadenti.” (simpson, stagione 8 episodio 21)
L’obiezione che Bart muove a Lisa nasconde la difficoltà cui accennavo: perché adottare un modello non altrettanto confortevole ed efficiente (banalizzando: “bella la passeggiata in bici, ma in moto faccio prima”)? Per il solo obiettivo di salvaguardare il pianeta (o per meglio dire la specie umana)? I nostri tempi sono rigidamente controllati da modelli lavorativi e sociali il più delle volte serrati, tali da rendere indispensabili tutta una gamma di utensili, elettrodomestici, abitudini alimentari ecc. complici del sistema inquinante.
Se non è un atto ideologico (in questo senso intendevo spirituale) a indurci a gestire diversamente il nostro tempo e le nostre esigenze, può essere l’emulazione di certi comportamenti, come dici tu, a volte anche un certo buonismo generalizzato che si traduce però in mode commerciali (il “recycled style”), mode che diventano poi ingranaggi della stessa economia capitalista ipertrofica che ha generato la necessità di ricorrere al riciclo.
L’analogia potrebbe sembrare esagerata ma il nostro comportamento in ambito lavorativo, non per tutti certo e anche in relazione al tipo di occupazione, mi ricorda quello che la Arendt diceva dei gerarchi nazisti, che facendo del male assoluto, di cui non si rendevano forse neanche conto, lo giustificavano col mero pragmatismo dell’obbedienza alla contingente autorità.
Mi è capitato di discutere con colleghi, di rado a dire il vero, perchè il più delle volte vigliaccamente soprassiedo, sull’utilità in un ottica più larga, ed in relazione ad una certa idea di bene comune, “umano” e “naturale” (se le due cose possono veamente essere disinte), delle nostre azioni quotidiane in ambito professionale appunto. Questo nuovo progetto che devo portare avanti aggiungerà qualcosa al nostro benessere (in senso lato)? Servirà questo nuovo software, pubblicazione, esperimento, aggeggio elettronico, prodotto a rendere la mia vita e la nostra vita più conforme a valori etici e sociali che cerchiamo di perseguire?
Me lo chiedo, letteramente, ogni giorno e da ciò deriva anche una mia dicotomia e contraddizione interna che, sono certo, condivido con altri. Detto ciò, sarò in errore, ma credo e constato che la maggior parte svolge i suoi compiti giornalieri con una noncuranza e “banalità” degna del miglior Eichmann. Come ho avuto modo dire nel mio post, temo che di questa maggioranza facciano parte anche “the best minds of our generation” parafrasando Ginsberg…
Le sole conseguenze che ci preoccupano sono personali e ristrette al nostro campo di azione, disattente a cosa porteranno a lungo termine e a livello, se non globale, almeno più ampio. Spesso, a volte troppo spesso, si difende il lavoro come se fosse fine a se stesso, il lavoro diventa un valore avulso da cosa produce e comporta.
Altro mantra, proferito a destra e a manca, è quello di amare ciò che si fa. Ma se io amassi estirpare (anche legalmente) boschi, non sarebbe ancor più deleterio farlo con passione e trasporto?
Non sto suggerendo di odiare il proprio lavoro così da farlo peggio. Dico solo che questa storia della passione suona molto sovente come un trucco per permetterci e spingerci a fare ciò che non faremmo altrimenti.
Forse sarebbe ora di iniziare a chedersi, ogni giorno in bici o sulla metro, o ahimè in automobile, di cammino verso le nostre occupazioni giornaliere, amate o odiate che siano, a cosa servano veramente, quali sono le conseguenze sullo stato psichico mio e degli altri, se aggiungano conoscenza e benessere spirituale, ed anche materiale nel senso meno becero del termine, se siano rispettose verso il resto della natura, piante ed animali tutti compresi ed altre analoghe questioni.
Insomma, per dirla come Ivan Illich, ci siamo trasformati da attori in utenti di questa megamacchina (infernale)