Icastici versi di Sandro Penna sulla banalità del conformismo.
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna
Sandro Penna on the triviality of conformism.
Lucky the one who is different
being actually different.
But woe to the one who is different
being just ordinary.
Translation by Salvatore M.
A mio avviso la demonizzazione del cosiddetto “conformismo” (che poi altro non è che l’adeguarsi al comportamento più semplice) rivela l’ossessione che il borghese conserva dalla sua nascita, e cioè quella di evitare l’omologazione e l’anonimato, effetti inevitabili (ma contenibili) dell’ampliamento del benessere sociale su vasta scala. Con l’arricchimento di enormi popolazioni, fenomeno che ha decretato la nascita delle masse moderne (lontane anni luce dai popoli europei del 1600), la classe borghese-mercantile si è proiettata al centro della vita culturale e politica delle società.
Per una semplice questione statistica possiamo notare che nell’ipotesi (ad esempio) di dover risolvere un quesito o di dover prendere una scelta, nei grandi numeri si verifica una certa distribuzione verso un numero ridotto di possibilità. Le infinite possibilità di risposta si riducono quindi a poche alternative. Questo non si verifica per colpa, per ignoranza o per gusto della banalità, ma perché – data la somiglianza che intercorre fra gli uomini – è naturale che la maggior parte di essi compia scelte simili. L’omologazione nasce quindi nel momento in cui osserviamo grandi insiemi umani nell’atto della scelta. E’ pertanto un fenomeno tipico dell’età moderna, visto che solo negli ultimi secoli le masse giocano un ruolo di primo piano nelle scelte e nella società in generale. Prima di allora, nessuno avrebbe parlato di omologazione nella classe del popolo, nessuno appartenente a questa classe si sarebbe indignato per il fatto di essere “uguale” ad altre persone (ammesso per assurdo che si possa essere del tutto uguali o diversi); questo perché il popolo non aveva un peso nella società, non era chiamato a compiere delle scelte, non era l’interlocutore di nessun mercato, non esprimeva pareri e non possedeva gusti. Come tale gli era impossibile omologarsi.
Il demone del conformismo appare solo con la cultura di massa, nel momento in cui si ha lo sviluppo ipertrofico delle proprie individualità al punto tale da considerarle delle entità monadiche dotate di propria valenza ontologica (non a caso la “Monadologia” di Leibniz è del 1714, ampiamente successiva alla nascita della figura del borghese). Ciascun individuo acquista la pretesa di essere unico ed irripetibile, ostentando il senso di onnipotenza che il mercante – forte dei suoi guadagni – ha sviluppato. Tuttavia, la distribuzione di analoghe possibilità a masse smisurate, ha prodotto quell’appiattimento delle scelte intorno a poche possibilità, decretando quel senso di forzata uniformità, quel senso opprimente di anonimato che si prova nel vedere le nostre presunte unicità ripetute infinitamente nelle vite degli altri. La tendenza attuale è ancora quella di ricercare la diversificazione delle nostre vite, purtroppo attraverso strumenti incompatibili con questo scopo: uno su tutti, il social network.
Sui gusti omologati delle masse si instaura poi il commercio, che naturalmente le studia per massimizzare i propri profitti, contribuendo così all’egemonia dell’anonimato e dell'”omologante”. I mercati inoltre mantengono – come strategia commerciale – il concetto illusorio di “identità”, illusorio in quanto nessuno di noi può esistere come ente a sé, ma solo in quanto elemento di un sistema. Gli uomini si assomigliano profondamente (e direi, fortunatamente) l’uno all’altro. Se così non fosse sarebbe impossibile definire alcun tipo di valore. Nella somiglianza esistono di certo delle peculiarità che ci contraddistinguono, in ragione del fatto che l’uomo è il risultato di così tante variabile da rendere impossibile il caso di individui totalmente equipollenti l’uno all’altro. Questo contribuisce si a renderci unici, ma non nel senso idealistico che vogliono i mercati.
L’identità dunque non esiste, e pertanto è assurdo poter parlare di individui hipster o individui da mainstream. In un caso specifico (1,-1) può anche avere senso, ma dedurre un giudizio di valore (come ad esempio l’essere hipster) su un essere umano, riferendosi peraltro a un concetto che nemmeno esiste (l’identità), è per me una semplificazione inaccettabile del reale.
Sono d’accordo sul fatto che il conformismo sia esattamente la cosa più con-natura che l’uomo possa fare, ma non capisco perché il fatto di essere elemento di un sistema (parli della società o della natura in generale?) rende più o meno illusorio il concetto di “identità”.
Contesto il concetto di identità come ente a sé, ontologicamente definibile e distinto, coi propri limiti e la propria unicità. Non è l’appartenenza ad un sistema che mi fa dedurre la falsità di questo concetto, semmai i dati delle neuroscienze.
Inoltre contesto la strumentalizzazione che ne fanno i mercati, i quali fanno leva sul nostro terrore dell’omologazione per rimpinzarci di prodotti che dovrebbero permetterci di “identificarci”, di distinguerci, quando in realtà non fanno altro che perpetrare l’omologazione stessa. Per questo dico che l’omologazione è inevitabile ma contenibile.
Nel mio papello spero di essere riuscito a centrare la chiave del ragionamento, e cioè che la nostra unicità (diciamo “monadica”) non esiste, per cui è impossibile definirci in termini assoluti quali conformista/anticonformista. Come è assurdo del resto parlare di uomini buoni o cattivi, belli o brutti.
Ancora prima del paradosso descritto nell’articolo (l’anticonformismo è a suo modo un “conformarsi”), mi risulta difficile definire un uomo in questi termini. Esistono solo scelte più o meno frequenti, gusti più o meno complessi, esigenze più o meno estreme, pensieri più o meno fini.
Se in una libreria, ad esempio, prima di arrivare nello scaffale di filosofia o poesia devo superare intere sezioni dedicate alla cucina, al libro dei calciatori, agli articoli coloratissimi per bambini, ai libri-inchiesta sulla cronaca nera, alle esuberanti copertine dei fantasy, ecc ecc, un motivo ci sarà, e questo motivo va ricercato nel fatto che è molto più semplice (attenzione che “semplice” non equivale a “naturale”) abbandonarsi alla distrazione piuttosto che complicarsi la vita con la filosofia.
Che il tertium non datur sia sempre una brutale semplificazione del reale penso che sia evidente.
Ma questo non mi porta a sdemonizzare il conformismo. I mercati sono fatti per vendere, ma il problema secondo me è che tu consideri “inevitabile ma contenibile” l’omologazione. Io la considero “reale e contenibile”: non credo che dobbiamo sentirci in balia dei mercati come ente esterno (non c’è un complotto); noi facciamo parte di essi e abbiamo il potere (statistico) di non scegliere la barba, la camicia a quadrettoni e la bici a scatto fisso.
Post scriptum: Aspetto un tuo post sui “dati delle neuroscienze”!
L’assurdità dell’etichettare gli individui con facili categorie è evidente.
Qui si vuole sottolineare la contraddizione (che forse non è poi così contraddittoria) di sbandierare, anche solo esteticamente, il proprio anticonformismo conformando l’atteggiamento anticonformista e rendendolo un nuovo archetipo.
Ma a ben vedere è sempre stato così per qualunque movimento che si proponeva di essere diverso dalla cosiddetta media, è un processo entropico. Mantenere un sistema a bassa entropia richiede pensiero, riflessione ed azione continui…
La parola io
questo dolce monosillabo innocente
è fatale che diventi dilagante
nella logica del mondo occidentale
forse è l’ultimo peccato originale.
Io.
La considero inevitabile perché l’omologazione non è il risultato di un artificio, ma la logica conseguenza delle nostre stesse nature. Ritorno a dire che ritengo le nostre identità non come entità autonome, slegate dalla realtà, ma come l’espressione del rapporto fra il singolo e ciò che lo circonda. Ciascuno di noi è unico, per tutte una serie di ragioni che vanno dalla biologia agli aspetti psicologico-sociali, ma l’identità di ciascuno non è definibile se non nel contesto in cui si trova. Non è un ente con limiti fissi, in un certo senso non esiste neppure. Ti dirò di più, per quanto ci si ostini a propugnare la propria identità come un marchio che ci dovrebbe distinguere dall’infinita marea degli infiniti anonimi, ci conformiamo anche inconsapevolmente alla società che ci circonda, siamo composti dai suoi elementi, visceralmente e, appunto, inevitabilmente. Ancor di più: non soltanto questa condizione è inevitabile, ma è quanto di più importante possediamo. Solo nell’appartenenza abbiamo la speranza di ritrovarci. Credo che si debbano abbandonare termini come “omologazione” o “conformismo” per ripescarne altri come “condivisione” o “comunità”, le uniche prospettive all’interno delle quali ha un senso parlare di identità.
Non voglio dire che omologarsi alle masse sia il nostro più alto scopo, ma trovo che esprima bene il senso delle nostre esigenze, è cioè quello di sentirci parte di una comunità, sentirci compresi e accettati. Discorso analogo va fatto anche per l’hipster che si contrappone.
Nel momento però in cui non esistono più comunità ma società parcellizzate e appiattite attorno a modelli standardizzati dalla tecnica e dal commercio (non è dietrologia, sono dati di fatto) l’unico modo per “sentirci comunità” è quello di condividere gli schemi imposti (la camicia a quadrettoni o a righe) o di infrangerli. Ma questo, come dicevo, non spezza l’omologazione ma la rinsalda, perché se mi si sottrae la comunità all’interno della quale io posso manifestare la mia unicità, se l’unico modo per condividere è quello che mi fornisce la Tecnica (non in quanto ente malvagio ma come processo in continuo farsi e disfarsi), allora quel residuo di unicità biologica che possiedo si affievolisce sempre più. In questo senso, dunque, l’omologazione è contenibile. In una comunità – la cui differenza con la massa è appunto l’essere definita dalla condivisione di determinati valori (o da ciò che potremmo chiamare, per riempirci la bocca, Weltanschauung) – la condivisione è a suo modo una omologazione, che può essere anche opprimente, ma che tuttavia permette un normale sviluppo delle nostre caratteristiche distintive.
Io non credo che si debbano abbandonare i termini “omologazione” o “conformismo” per ripescarne altri come “condivisione” o “comunità”, ma semplicemente distinguerli e scegliere la seconda coppia piuttosto che la prima. La distinzione, a mio avviso, nasce nel concetto della scelta. Per natura ognuno è portato a spendere meno energia possibile, quindi a non scegliere criticamente ma solamente accogliere (omologandosi e conformandosi) senza chiedersi i perché delle azioni. Andare contro-natura vuol dire pensare e scegliere se e cosa condividere, scegliere se e cosa mangiare, scegliere se e cosa vestire.
Per concludere, secondo me, ai modelli standardizzati dalla tecnica e dal commercio, non si ci arriva solo tramite società parcellizzate (come giustamente dici tu), ma anche attraverso il suo contrario, ovvero comunità basate sulla non scelta.
“La distinzione, a mio avviso, nasce nel concetto della scelta. “: mi sta anche bene, ma cos’è l’oggetto della scelta? Ti accorgi come non si riesce nemmeno a definire cosa sia l’identità senza farla risalire alle scelte “da supermarket”? Questo è diventato il vero incubatore delle personalità, non la vita di tutti i giorni, dove si evitano i contatti e si fatica a guardarsi l’un l’altro.
Trovo che la società capitalista sia molto centrata sulla scelta, per il semplice fatto che il liberismo comporta una spietata concorrenza con inutili ridondanze di prodotti tutti uguali. Il “consumatore” è sempre chiamato a scegliere, in qualsiasi momento della giornata, lasciando sottintendere che nella scelta egli ha la possibilità di distinguersi dalla massa e realizzare sé stesso (vedi le pubblicità delle auto).
In ogni gruppo umano esistono individui tendenzialmente “omologati” (o conservatori, garanti dello status quo) e altri “anticonformisti” (per non dire omologati su altri parametri) a seconda di molti fattori, uno su tutti il grado di soddisfazione e di benessere. Quello che però cerco di dire è che nelle società pre-capitaliste, o meglio “pre-globalizzazione”, la solidità delle comunità permetteva l’esistenza di valori condivisi che potevi abbracciare o criticare, ma che in ogni caso rappresentavano l’elemento cardine del formarsi dell’identità. In questa prospettiva, la condivisione di un valore non era omologante, e anche laddove esprimeva l’atteggiamento retrivo della classe nobiliare o borghese, era comunque un modo per prendere una determinata posizione nel mondo.
Oggi, all’indebolirsi dei vincoli comunitari (e al disgregarsi fisico delle comunità stesse), gli individui restano vuoti come crisalidi, slegati da quei vincoli in rapporto ai quali si definivano. Tutto questo è soppiantato dalle fantomatiche scelte che ciascuno di noi, a partire dai 3 anni di età, è chiamato a fare. La maggior parte di queste scelte (per non dire la quasi totalità) riguarda la scelta dei prodotti che dobbiamo acquistare o dei quali ci dobbiamo attorniare. Credo che il motivo per il quale la gente impieghi così tanto tempo a discutere di ciò, sia da ricercare nel bisogno disperato di “identità”. Tuttavia, come ho già avuto modo di dire, la limitazione delle scelte a condizioni prettamente materiali (e preimpostate) svilisce le nostre potenzialità, facendole regredire ad uno stadio primordiale (i “neoprimitivi” di Battiato). In quest’ottica la scelta è sempre “omologante”, non esiste possibilità di riscatto alcuna.
Se ci limitiamo all’accezione negativa, la parola “omologazione” esprime in pieno tutto questo. Se invece vogliamo riferirci al grado di “omologazione biologica” (dovuta alla somiglianza che intercorre fra un uomo e l’altro, pur nelle differenze) o al grado di “omologazione culturale” (che nasce dalla condivisione dei valori da parte di una comunità), allora usare la parola “omologazione” diventa fuorviante, perché carica di connotati foschi anche meccanismi naturali. Per questo puntavo l’attenzione sul dato linguistico, convinto del fatto che il linguaggio contribuisce a creare (o distruggere) la realtà.
Vuoi uscire giustamente dalla semplificazione conformista-anticonformista, ma mi sembra che entri in una altrettanto semplificata visione della storia della società capitalista-anti(pre)capistalista (e spero di non aver attizzato troppi fuochi con questa frase).
In ogni caso le scelte di cui parlo, sono prima di tutto mentali e solo dopo da supermarket!
Penso che potremmo approfondire tutti questi argomenti in altri post(i)! 🙂
In ogni caso credo che un deciso punto d’incontro ci sia: le comunità sono importanti e necessarie!